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Okay, okay, Trump e i grandi del G20 hanno detto che di clima e ambiente se ne sbattono le palle, ma non tutti la pensano così. In tempi non sospetti, ad Arco, è stato lanciato un progetto tanto innovativo quanto lungimirante. Quattro donne hanno ideato una proposta per creare uno spazio verde sinergico nell’area dove è sorto il nuovo parco Nelson Mandela, località meglio conosciuta come Braile.
Il progetto – “Parco delle Braile. Coltivare cibo per far crescere la comunità” – così com’è stato immaginato dalle progettiste, prevede la suddivisione dei quasi tre ettari del parco in varie aree, tutte con la propria funzione ma connesse tra loro.
L’area che si trova a sud-ovest (in basso a sinistra per chi non è pratico di punti cardinali) è dedicata agli orti ed è stata recentemente inaugurata. Non si tratta soltanto di semplici orti; infatti, se da un lato diversi lotti di terreno sono stati affidati alle singole persone, dall’altro una parte è stata destinata ad uso comune. In particolare due lotti di terreno sono stati affidati in gestione a varie associazioni e collettivi che nel frattempo hanno attivato un percorso di integrazione per i richiedenti asilo che vivono ad Arco. Non si preoccupino i perbenisti, questi orti “collettivizzati” non sanciranno l’avvento del comunismo e nemmeno l’abolizione della proprietà privata, ma punteranno a creare più socializzazione tra le persone e una maggior condivisione del Bene Comune. Altra peculiarità, all’interno dell’area orti sono ricavati gli spazi didattici per le scuole e l’orto accessibile ai disabili, perché va bene che oggi esiste Amazon e si può fare la spesa senza scendere dal divano, ma un po’ di educazione ambientale e imparare che l’insalata se la possono coltivare da soli non farà certo male ai vostri bambini.
Per completare il tutto, durante i mesi estivi sono stati promossi vari incontri formativi per caldeggiare un’agricoltura sociale e sostenibile. Tra questi, e lo ricordo benissimo perché ero presente, anche uno utilissimo sulla coltivazione della canapa. No! Non quella che rende le persone felici, bensì quella con la quale si possono produrre olio, farina e tessuti e, soprattutto, che può essere coltivata legalmente.
Altre zone previste all’interno del progetto, ma non ancora realizzate, sono una palazzina polifunzionale dove lavorare i prodotti dell’orto e un parco giochi molto speciale. In quest’area, chiamata in gergo tecnico natural playground, i vostri bambini smetteranno di rimbambirsi correndo su e giù dallo scivolo e potranno sviluppare la propria creatività interagendo con gli stessi giochi del parco.
Infine, per completare il tutto, dovrebbe sorgere persino una food-forest, tradotto: piante da frutto accessibili a tutti. Sì, avete capito bene, frutta gratis. Un certo G. Clooney non potrebbe che aggiungere: “What else?”
Dal momento che siamo rimasti molto colpiti da questo progetto abbiamo deciso di volerne sapere di più e per questo abbiamo deciso di contattare Claudia Ferrari, una delle progettiste, e Silvia Girelli, assessora alle Politiche della socialità e dell’ambiente.

Claudia, come è nata la vostra idea?
Innanzitutto il parco esisteva già, era già stato realizzato. Ma da cittadine il parco non ci sembrava valorizzato, vedevamo molto potenziale in quegli spazi poco vissuti. Per questo abbiamo pensato che una soluzione fosse quella di dare nuove funzionalità al parco perché potesse diventare un “incubatore” di comunità.

Quindi da dove partire?
Abbiamo iniziato a ragionare sullo sviluppo di una comunità che ruotasse anche attorno al concetto di agricoltura urbana. Il progetto è nato un po’ dall’unione di questi due aspetti. Facciamo comunità, facciamo cultura facendo vivere questo parco in maniera diversa. A circa un anno di distanza dall’inaugurazione del parco abbiamo iniziato a fare dei veri e propri progetti. Principalmente eravamo in quattro a lavorarci: oltre a me c’erano Vania, Angelica ed Elisa. Per portare avanti questi progetti abbiamo deciso di mettere in gioco, da un lato, quelle che erano le nostre competenze professionali – che vanno dalle scienze della formazione, all’architettura, passando per l’agricoltura – dall’altro le nostre passioni, come l’orticultura (la “u” non è casuale). Quindi a tavolino, spendendo molti giorni di lavoro, ci siamo impegnate per studiare un progetto per far vivere il parco. Successivamente ci siamo appoggiate all’associazione AnDROmeda, questo perché ad oggi, per interfacciarsi con l’amministrazione comunale, serve essere un ente giuridico riconosciuto; essere un gruppo di cittadini interessati e competenti non basta. Così è iniziato un lungo e complesso confronto con l’amministrazione pubblica fatto di appuntamenti su appuntamenti per condividere il progetto. In questo periodo ci sono state anche alcune incomprensioni, probabilmente dovute a un linguaggio e ad un modo di operare estremamente diverso.

Questo linguaggio diverso ha influito sulla realizzazione del progetto, rispetto a come era stato immaginato da voi?
Sicuramente, anche se va detto che l’amministrazione ci ha creduto e molte parti sono state realizzate, però con modalità che per questo particolare tipo di progetto noi non condividevamo. L’idea di fondo che stava alla base del nostro masterplan era che la realizzazione del parco fosse subordinata a dei processi di comunità. Mi spiego meglio: dal nostro punto di vista era fondamentale che in principio venissero innescati dei processi collettivi che ponessero al centro di tutto la comunità di persone che avrebbe dovuto vivere il parco. Questi processi avrebbero creato l’ambiente adatto per una gestione partecipata del parco – tra cittadini e amministrazione comunale.

Mi pare di capire però che le cose non siano andate così…
Al contrario, si è scelto di sminuzzare il progetto in piccole parti, dividendolo in piccoli incarichi portati avanti da terzi e “calati dall’alto”. In questo modo risulta difficile riuscire a costruire quel senso di comunità e partecipazione che stava alla base del progetto. Forse l’amministrazione non ha saputo capire fino in fondo la differenza che passa tra realizzare un progetto e supportare un processo di comunità (che è ciò che avremmo voluto). Un esempio: tra i criteri per l’assegnazione degli orti abbiamo proposto di considerare anche il grado di cittadinanza attiva delle persone (l’impegno che una persona mette al servizio della comunità con attività come il volontariato, NdR) e l’obbligo di praticare un’agricoltura biologica. Di questi nel bando finale non c’è traccia, se non per quanto riguarda l’agricoltura biologica che però costituisce un criterio preferenziale ma non obbligatorio. Un altro esempio potrebbe essere quello riguardante l’imminente realizzazione di quello che doveva essere uno spazio polifunzionale, un bar che potesse funzionare anche da piccolo laboratorio di auto-produzione all’interno del parco, accessibile a tutti. Uno spazio che al suo interno avesse le strumentazioni per fare la trasformazione e la preparazione di frutta e ortaggi direttamente sul posto. In questo modo lo spazio sarebbe potuto diventare una piccola impresa sociale dove vendere alcuni prodotti dell’orto. Invece con ogni probabilità sarà realizzato un “normale” baretto. In pratica avremmo voluto vedere da parte dell’amministrazione un po’ più di coraggio nell’attuazione di certe scelte.

Secondo te, arrivati a questo punto, l’amministrazione proseguirà nella realizzazione del progetto?
Io sono convinta che alla fine l’amministrazione realizzerà tutte, o quasi, le parti del progetto, ma lo farà “a modo suo”, senza tener conto di quella che era la visione iniziale. E questa è la cosa che più dispiace, perché sulla carta sembra che stiano realizzando a pieno il progetto, ma così non è. Dispiace anche perché in questo progetto abbiamo investito molto tempo e molto lavoro; continueremo a farlo, ma in misura minore, concentrandoci su altri progetti. Probabilmente è mancato il ragionamento culturale di fondo: noi avremmo preferito far sì che il progetto non fosse realizzato “dall’alto”, ma avremmo voluto piuttosto innescare quei processi per i quali fosse stato “il basso” ad attivarsi per la sua realizzazione. Non tutto è perduto però, abbiamo notato ad esempio come siano stati gli ortolani stessi ad attivarsi per dare un senso di comunità agli orti e questo ci fa molto piacere.

Abbiamo fatto il punto della situazione anche con l’assessora alle Politiche della socialità e dell’ambiente Silvia Girelli e questo è quello che ci ha detto.

A che punto siamo con il completamento del parco e quali saranno i prossimi passaggi?
Per quanto riguarda gli orti cittadini stiamo entrando a regime, tutti i lotti sono stati consegnati alle famiglie. Stanno proseguendo anche i progetti riguardanti l’orto sociale didattico, alcune scuole materne e alcune classi elementari hanno già preso parte, in via sperimentale, a questi progetti didattici che portano bambini e bambine a contatto diretto con gli orti del parco adeguatamente attrezzati allo scopo. Inoltre alcune di queste hanno già preso contatti per proseguire questa esperienza. Nel frattempo le varie associazioni si stanno prendendo cura dell’orto comunitario.
Il prossimo passaggio invece riguarderà la realizzazione della struttura di servizi accessori con annessi servizi igenici e un piccolo chiosco con adiacente copertura per le feste. Si tratterà di una palazzina multifunzione, molto piccola e architettonicamente poco impattante. Questo sarà il prossimo passaggio concreto per il completamento del parco. Il passo successivo sarà quello di stimolare gli assegnatari degli orti a prendersi cura non soltanto della parte riguardante appunto gli orti, ma anche di altre zone del parco. Già alcuni di loro hanno espresso la volontà di voler piantare delle piante da frutto in giro per il parco e successivamente di prendersene cura. Stiamo raggiungendo uno degli obiettivi (la creazione di una food-forest, NdR) senza nemmeno dover intervenire. Il messaggio che sta passando era proprio quello che volevamo, cioè di non curarsi solo il proprio orticello ma di guardare un po’ più in là e vedere il parco per quello che è, un bene comune di cui prendersi cura. Dobbiamo riconoscere che non c’è nemmeno stato bisogno di chiederglielo, sono stati gli stessi ortolani a farsi avanti chiedendo all’amministrazione il supporto per procedere in questa fase del progetto che prevede la piantumazione di diverse piante da frutto. Questa è la conferma che il progetto che ci venne presentato dalle progettiste dell’associazione AnDROmeda andava nella direzione giusta.

Da quello che abbiamo capito, durante l’attuazione del progetto, ci sono state delle incomprensioni con il gruppo delle progettiste…
Noi come amministrazione comunale abbiamo iniziato a ragionare sul parco, assieme alle progettiste di AnDROmeda, circa due anni fa. Loro hanno messo insieme una squadra con competenze diverse e molto interessanti e un progetto composto da otto tavole, molto teorico e molto interessante. Da entrambe le parti non siamo riuscite a garantire la presa in carico dell’amministrazione di un progetto così ampio, della durata di tre anni, con costi che non erano stati preventivati. Affinché l’amministrazione potesse impegnarsi per garantire cifre tanto importanti per tre anni, abbiamo chiesto degli approfondimenti e una scheda economica che però è risultata essere troppo elevata. Capisco che si possano sentire demoralizzate per via delle lungaggini burocratiche, però la volontà del Comune di Arco è stata la trasparenza e non riuscendo a garantire per tre anni le cifre per la realizzazione del progetto abbiamo dovuto procedere per fasi. Poi loro, anche giustamente, hanno detto di non poter dipendere anno per anno dall’amministrazione e ognuno ha fatto le sue scelte. C’è chi è rimasto e chi si è allontanato da questo percorso, forse demoralizzato dal fatto che come amministrazione non siamo riusciti a garantire il sostegno al progetto in tempi brevi. Cercheremo comunque di confermare la realizzazione di tutte le linee guida del progetto, però abbiamo avuto la necessità di spezzettarlo per realizzarlo a piccoli passi. Forse ci voleva un po’ più di coraggio, ma pensiamo di aver preso una strada alternativa per la sua riuscita. Riconosceremo sempre il valore del gruppo che ha portato avanti questo progetto e che tanto ha investito, sia in termini di tempo che di lavoro, per portarlo alla luce. Questo ci tengo a dirlo: senza di loro non saremmo a questo livello.

A conclusione di queste interviste possiamo dire di aver capito che non tutto è andato per il verso giusto ma, al netto delle incomprensioni e della mancata attuazione del progetto originale, rimane il fatto che il Parco Nelson Mandela, o delle Braile – che poi se no gli indigeni si fomentano– rimane uno spazio importante per la città di Arco e il suo potenziale sociale rimane enorme: basta solo volerlo far fruttare.

di Tiziano Grottolo