Chiudete gli occhi e immaginate le praterie americane ai tempi dei pionieri, sconfinate ed inospitali, deserti selvaggi e montagne rocciose, pistoleri, sceriffi e fuorilegge. Il nonnetto sdentato sulla sedia a dondolo, appostato fuori dal saloon che farfuglia una frase tipo: “Che mi venga un colpo se quello non è il vecchio John! PTUI!”, sbagarrando sonoramente in una sputacchiera.
Quindi Westworld è un telefilm western?! Sì. No. Boh.
Ci troviamo davanti ad un interessante miscuglio di generi, dal western allo science fiction; un po’ come se ci stessero porgendo un polpettone bello sostanzioso, ficcandoci dentro i film di Sergio Leone, Blade Runner, Ghost in the Shell e i romanzi di Asimov (con una spruzzatina del videogioco Red Dead Redemption). Ma tranquilli che sta robba non ve resta sullo stomaco perché, come chef professionisti, gli sceneggiatori hanno abbinato sapientemente gli ingredienti, facendo risultare il tutto eccezionalmente saporito ed impiattato alla perfezione.
Come nell’omonimo film del 1973 scritto e diretto dall’inventore di Jurassic Parck Michael Crichton (in Italia uscito col titolo “Il mondo dei Robot”), Westworld è una serie ambientata in un futuro prossimo, dove l’industria robotica è arrivata ad uno stadio talmente avanzato da diventare “intrattenimento”, un business per ricconi annoiati disposti a spendere fior di dollaroni per passare “momenti di evasione” in un parco a tema (in questo caso, appunto, western). Di conseguenza tutto ciò che avviene all’interno dell’area attrezzata, non è altro che una complessa finzione, orchestrata dallo staff del parco che costruisce, ripara e dirige ogni singolo androide che abita la zona (non a caso vengono definiti “attrazioni”).
L’uomo si erge a divinità di questo piccolo grande mondo e le macchine (inconsapevoli di esserlo), vivono le loro misere esistenze in un loop quotidiano, alla mercé delle voglie più oscure degli “ospiti” (cioè degli umani visitatori); questi, per rompere la routine, approdano nel parco uccidendo, stuprando e saccheggiando. Vivendo in sostanza una vita che nel mondo “reale” non sarebbe tollerabile.
La serie è scritta divinamente e vanta un cast eccezionale (tra cui il sempre splentito splentente Anthony Hopkins ed un monumentale Ed Harris). Le tematiche sollevate sono quelle affrontate nelle opere sopracitate: le differenze tra uomo e macchina, il valore dell’umanità e dell’anima, l’illusione della realtà, l’aberrazione della schiavitù, il rapporto tra uomo e dio (e di conseguenza, tra robot e creatore).
Tra le migliori serie del 2016, Westworld vanta come valore aggiunto l’essere stata in grado di proiettare gli spettatori all’interno di una sorta di “labirinto narrativo” (un po’ come il “maze” nominato più volte dai personaggi della serie) e di creare una community di fan prodighi di teorie (esattamente come ai tempi di Lost), alla costante ricerca del minimo indizio in grado di dipanare dubbi, ansie e paranoie, fino alla risoluzione finale che strapperà con violenza il pubblico dalla trappola di questa sorta di dedalo.