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Ah, i primi caldi (all’epoca era primavera NdR). Ah, le prime brezze foriere di serendipità. Ah, l’aere pregna dei primi pollini – infami. Ah, ah, ah, ah, stayin’ alive, stayin’ alive.

E soprattutto, ah, il maligno che si insinua nelle nostre menti, nei nostri intenti, nei nostri desideri più inenarrabili, che ci spinge con voce suadente a travalicare i nostri insopportabili limiti umani perché tanto possiamo permettercelo, perché tanto basta una notte di riposo e passa tutto, perché tanto siamo forever young. Eccoci quindi lì, disgustosamente arenati, spiaggiati sul letto per un intero weekend, le gambe ridotte a inutili e dolorose appendici e un urlo silenzioso incastrato in gola: perché?

Ma facciamo un passo indietro – uno solo, che due non li reggo.

Il Fisioterapista, già co-protagonista del primo episodio, uomo di mondo, ottimista solo col culo degli altri, avanza la proposta indecente: una breve e romantica gita fuori porta a fronte di una manciata di ore libere nel pomeriggio, una cosa semplice, un tête-à-tête in amicizia, due passi e quattro chiacchiere, due cuori e una borraccia.
Il mio errore è sempre il solito: la fiducia, poca ma comunque troppa.

«Questa sembra più facile, probabilmente mi concentrerò di più sulla poesia intimista del panorama che sui reiterati tentativi di suicidio della mia coscienza.»

Il bel tacer non fu mai scritto, disse qualcuno – dando vita ad una curiosa apologia del silenzio che perdura tutt’ora e che, chiassosi figli di puttana come siamo, forse ci meritiamo.

Ed ecco cosa ci accoglie appena scendiamo dall’automobile nei pressi di Passo Bordala: lui, il silenzio. Meraviglioso, tiepido, accomodante silenzio, che ci accarezza e ci accompagna per gli scorci valgrestani, si intensifica quando ci addentriamo nel bosco – schivando il rifugio Somator – e si tramuta in imprecazione quando scopro che il primo tratto del percorso (ma stiamo effettivamente seguendo un percorso?) consiste in una lunga e ripida gradinata di legno che si arrampica tra gli alberi. Il male. Tutto molto bello, chiariamoci, ma pur sempre il male.

Tra una pausa tattica (“ho sete”; “voglio solo guardare un po’ il paesaggio”; “bello qua, dovremmo fare una foto”) e una ripassata al calendario, gli scalini terminano e la mia stamina con loro. Sbuchiamo dagli alberi, costeggiando il vuoto che si dispiega alla nostra sinistra; la vallata si estende sotto di noi, vasta e distante, e Il Fisioterapista non resiste alla disneyana tentazione di intonare Il mondo è mio – limitandosi al titolo, perché il resto non se lo ricorda mai nessuno. Ormai siamo vicini alla meta. Accuso i primi dolori articolari. Sentiamo avvicinarsi delle voci, seguite da due briose signore oscillanti tra la seconda e la terza età – le prede preferite del Fisioterapista – dall’invidiabile tempra fisica e morale. Si apprestano a tornare alla civiltà, non prima di essere state laidamente corteggiate dal mio voluttuoso compagno, che in seguito si appenderà alla solita, inflazionata scusa della buona educazione – certo.

Superati gli ultimi ostacoli (un paio di tratti attrezzati con cordino metallico e scaletta, araldi di un’onesta – et necessaria – dose di adrenalina), arriviamo finalmente al dunque: una cima intima, verde, silenziosa, soleggiata. Qui ci attende la croce di vetta, vero premio di ogni escursionista – nonché una mezz’ora di riposo, vero premio per le mie gambe ormai defraudate della loro funzione primaria.

È a questo punto che inizia l’orrore, quello inenarrabile per davvero: il ritorno. I rapporti di proficua e reciproca collaborazione tra me e le mie giunture sono ancora piuttosto tesi, e ogni passo in discesa è una coltellata nelle ginocchia. Panico. Maledico i gradini del primo tratto, maledico Il Fisioterapista, maledico le troppe pause, consapevole di non aver imparato un cazzo quando ero negli scout (“non ci si deve mai sedere durante una camminata” – mannaggiaatuttivoi). Ormai sicuro del fatto che probabilmente sarò più sedia a rotelle che uomo per il resto della mia bieca esistenza, stringo i denti e mi appello all’Altissimo. Stavolta fiancheggiamo l’altro lato della montagna: un sentiero esposto, semplice e panoramico che, complice il mio incedere dolorosamente claudicante e portatore di irripetibili slanci iconoclasti, mi godo meno di quanto vorrei.

Se esiste un Dio, probabilmente mi ha disconosciuto per sempre.

 

di Desmond Titubo

 

Pagella

 

Difficoltà percorso: 3/5

Breve e doloroso, come il tempo in Terra concessoci da Nostro Signore Gesù Cristo Cav. Crociato (amen). Un punto in meno se siete persone normali, due punti in più se siete me.

           

Scenografia: 4/5

Bella la vallata, belli i prati, belli i sassi, belli noi, bello tutto.

 

Densità turistica: 1/5

Pochi ma buoni, come si suol (voce del verbo suolere? solere? solecuoreamorere?) dire, a patto che consentiate al vostro gerontofilo interiore di uscire a giocare.

 

Dramma esistenziale: 4/5

Mi fermo a quattro perché mi piace pensare che possa andare peggio.

 

Voto finale: ahia.