Misi la forchetta in direzione Topeka, allorché il magnetismo, quello dei venti del sud, mi ricordasse quant’è patriottico il mais, il grano, e quanto è buono ciò che ne nasce. Rivolsi il coltello d’argento in direzione nord- est, su, fino al Montana. In un paesino fuori Bozeman avevo mangiato il miglior filetto d’angus della mia vita, tenero ed indimenticabile. Scelsi quindi d’immaginarmi il bicchiere di cristallo di fronte a me, pieno di vino, vino rosso. Anche a mia moglie piaceva, in particolare quello spagnolo; “d’effimera seduzione”, di ampi sorrisi, si esprimeva. Accettai tutto questo sipario mentale, al fine, pregando, come e quando si fa con il cilicio, di morire subito. Un uomo costretto a mangiar carne umana. Dalle smorfie animalesche, dalla disperazione del momento, egli piangeva e mangiava. Stava seduto ad un tavolino, legato alla sedia dal busto in giù, con gli arti superiori liberi, e piangeva e mangiava. Reni, milze, cervelletti al limone. Falangi fritte e orecchie al pepe verde. Mangiavo e piangevo, mentre cadaveri mutilati, sparsi al suolo fangoso, affondavano nella palude. Cosa c’era di più sacrilego? Affondare i denti in un adduttore, succhiare il midollo di quello che una volta era un povero cristiano, spargere sale su un bulbo oculare, a volte azzurro come il cielo, a volte nero come la pece. Il coccodrillo Tom sapeva il fatto suo in cucina, questo era certo. Un rettile di due metri e cinquanta che in posizione eretta, e con un grembiule addosso, faceva la sua tetra figura. Lui cacciava, pescatori e barcaioli. “I pescatori della Louisiana sono ottimi combattenti, ecco perché la loro carne è più saporita”, mi spiegava. E quando finiva di far scorta si dilettava in ricette “originali”. La sua cucina era sotto un pioppo piangente, e si snodava in una serie di falò e di griglie a braci. Cucinava con grazia, quasi con rispetto, dietro quel muso aguzzo, estensione mandibolare, si poteva notare dell’amore nei suoi occhi, amore per il suo operato. Ed io non potevo fare a meno di guardarlo, di carpire anche ogni suo piccolo segno d’empatia nei miei confronti. Costretto a mangiare portate d’interiora, costole brasate, magari un prete, un ranger. Mentre mi consegnavo inerme alla sua arte, sazio e sfacciatamente ammaliato, mi rendevo conto che la sua cucina era qualcosa di più. Alla vigilia delle intenzioni, quando tutto è ancora sopito, quando la brina copre ancora i canali cerebrali, e la prima scossa elettrica ti illumina, il suo sguardo mi diede sostanza di ciò che quel rettile aveva intenzione. Sembrava volesse dire: “Lavati l’anima, uomo”, “ora che sei alla fine”. L’inclinazione della sua testa era sempre la stessa, come se guardasse da sopra una mesa, come se questo scrittore fosse il suo santuario.
Aprii gli occhi…
in quel locale non era rimasta anima viva…
c’era solo uno uomo in maschera che beveva da solo…
ed io mi promisi di non bere più Gin…
Di Chef Jim Zèdé